Jeremy Kost: il fascino di una Polaroid in un`epoca digitale
Tu blocchi un secondo ma il tempo va avanti. Premi un bottone e tutto quello che hai avuto a disposizione davanti agli occhi diventa tuo per sempre. Senti un rumore. Un rullo gira. Un rettangolo plastificato scende dolcemente sulle tue mani. È buio ed indefinito. È un alone di incertezza che avvolge la speranza che qualcosa di buono possa davvero rimanere, a sostentamento di un ricordo che si teme sbiadisca nel tempo. Improvvisamente dei colori. Delle luci. Il rosso di labbra carnose si accende, il bianco di acqua che si infrange su un lavandino acquista sicurezza e si riversa in un giallo di foglie cadute sul davanzale, che trovano in quei pochi secondi di incertezza gli ultimi istanti di un sicuro movimento. È la morte del movimento fisico. È l’inizio del movimento eterno. È la magia di una Polaroid che regala attimi di un vissuto.
Ricordo un album di pelle rossa con pagine di cartone nero, divise l’una dalle altre da fogli di velina bianca. Ricordo Polaroid del matrimonio dei miei genitori. Lei con un vestito color panna ed una corona di fiori in testa. Lui con un gilè che oggi conservo io nell’armadio e che mi ricorda di quanti pochi soldi ci fossero per mangiare ed ingrassare. Ricordo zie improbabili in vesti viola e cugini troppo piccoli per pensare a che espressione fare davanti al fotografo. Sono tutti lì quei momenti. Sono nelle cornici bianche leggermente più grosse nella parte inferiore per poter scrivere una data o un commento o un’informazione. Per tenere vivo il ricordo. Perché viviamo di ricordi. E senza quelli ci sentiremmo nati ogni giorno. Mai grandi. Mai capaci di emozionarci. E sono proprio i rettangoli più belli, con il rosso di quelle labbra più vivido o il bianco di quell’acqua che si infrange sul lavandino più acceso che hanno l’opportunità di venire sacrificate. Ci armiamo di puntine e con centurionica foga le crocifiggiamo in un Golgota di sughero. Le teniamo sempre davanti a noi. Non ci dimentichiamo così del giallo di quelle foglie che ormai sul davanzale non ci sono più perché è primavera e sono tornate sui rami. Verdi.
Jeremy Kost, il fotografo noto nel circuito artistico newyorkese come ‘the Polaroid Artist’, è uno dei pochi che continua a creare outfit attraverso il ‘vecchio metodo fotografico’, scagliandosi artisticamente contro l’onda di successo delle immagini digitali che hanno ormai ubriacato la contemporaneità. VAI AL BLOG DI JEREMY KOST>>
Dice, come tanti, di essere stato influenzato da Andy Warhol e di trovare costante ispirazione nell’East Village e nel Lower East Side. Nella Polaroid Kost ricerca bellezza ed equilibrio, bruttezza ed insicurezza; cattura un mondo esterno a fama e celebrità. Immortala quello che noi desideriamo essere, quello di cui probabilmente abbiamo paura, quello che forse non saremo mai.
Ragazzi dallo sguardo annebbiato dalla loro stessa nube di fumo, drag queens impegnate a mutare attraverso un rigoroso make-up; Jeremy Kost ci obbliga a guardarci dentro. A capire chi vogliamo effettivamente essere. Kost si sente circondato da una società eternamente indecisa, volontariamente assente ed afferma che la bellezza, per ora, è solo negli occhi del ‘Polaroider’.
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Manuel Masi
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